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03/25/2025

TRASMISSIONE TRANSGENERAZIONALE DEL TRAUMA

Silvia Cavedoni

Trasmissione transgenerazionale del trauma

Il concetto di trauma transgenerazionale si riferisce alla trasmissione degli effetti degli eventi traumatici da una generazione alla seguente. Questa forma di trasmissione non richiede necessariamente l’esperienza diretta di un evento traumatico né avviene sempre in modo consapevole, ma si verifica attraverso pattern comportamentali, stili genitoriali, risposte emotive e persino cambiamenti nell’espressione genetica.  L’impatto della trasmissione del trauma su aree fondamentali dello sviluppo, quali l’attaccamento madre-bambino, la regolazione emotiva e la mentalizzazione, può essere profondo e duraturo. Queste aree di funzionamento sono cruciali per la salute emotiva e psicologica delle generazioni future. Le dinamiche circolari legate al trauma possono persistere per decine se non addirittura centinaia di anni se non vengono affrontate efficacemente. In questo articolo esploreremo brevemente i meccanismi attraverso cui il trauma transgenerazionale incide sull’attaccamento madre-bambino e dunque sulla regolazione emotiva e la mentalizzazione, mettendo in luce in che modo questi processi contribuiscono a perpetrare il ciclo del trauma e della vulnerabilità emotiva di generazione in generazione.

Comprendere il trauma transgenerazionale

Per trauma transgenerazionale si intende l’insieme dei meccanismi di trasmissione dell’impatto emotivo, psicologico e talvolta anche fisico degli eventi traumatici da parte di chi lo ha subìto direttamente alle generazioni seguenti. Le esperienze traumatiche che contribuiscono a questo fenomeno variano da eventi avversi quali la guerra, il genocidio o la violenza (i cosiddetti traumi con la “T” grande) agli “sviluppi traumatici” (Farina, Liotti, 2011) ovvero forme di abuso e neglect infantile (i cosiddetti traumi relazionali o con la “t” piccola). Gli effetti di queste esperienze spesso non sono limitati ai sopravvissuti e non è necessario che i discendenti rivivano in prima persona l’evento traumatico che i genitori hanno sperimentato: le reazioni a catena che si possono creare riguardano la creazione di dinamiche familiari disadattive, stili di coping disfunzionale (ad esempio, la regolazione delle proprie emozioni mediante l’uso di alcol e/o sostanze, cibo o agiti autolesivi) e disregolazione emotiva. Tutto questo può comportare alterazioni importanti e profonde che riguardano anche l’insieme delle connessioni neuronali e lo sviluppo cerebrale dei discendenti dei sopravvissuti al trauma.

La relazione genitore-figlio costituisce uno dei principali meccanismi di trasmissione del trauma attraverso le generazioni. I bambini, infatti, apprendono i meccanismi di regolazione delle emozioni e di gestione dello stress dai loro caregiver ovvero le persone che si prendono cura di loro, generalmente (ma non esclusivamente) i genitori e nello specifico la madre. Quando un genitore ha vissuto esperienze traumatiche che sono rimaste irrisolte, la sua capacità di fornire un ambiente calmo, accogliente e sicuro può essere inficiata. Questo può tradursi nella mancanza di disponibilità e sintonizzazione sui bisogni del proprio figlio (ad esempio, i bisogni fisiologici di nutrimento ma anche quelli affettivi di contatto e vicinanza), come anche in difficoltà a regolare il proprio stato emotivo e di conseguenza quello del figlio. Ciò accade non perché ci troviamo in presenza di un “cattivo genitore” ma, ad esempio, perché il padre o la madre del bambino potrebbero essere cresciuti in ambienti sfavorevoli che non hanno permesso loro di acquisire gli strumenti necessari a cogliere e regolare il proprio stato emotivo in modo funzionale. Inoltre, il caregiver potrebbe risultare eccessivamente presente e sollecito nell’assistere il bambino o intervenire dopo un tempo troppo lungo (oppure non intervenire affatto) per rispondere ai suoi bisogni: una simile inconsistenza nell’accudimento può rivelarsi problematica se non addirittura disorganizzante per il bambino. Nel primo caso, infatti, il caregiver non consente al bambino di sviluppare una competenza fondamentale ovvero la tolleranza degli stati di passività e di frustrazione, cruciale per il funzionamento scolastico e nella vita adulta. Al contrario, nel secondo caso il bambino viene lasciato per troppo tempo in balìa di sensazioni corporee ed emozioni senza sapere come regolarle, tantomeno senza avere ancora strutturato una mente in grado di darvi un significato, e che possono diventare estremamente dolorose. Tra le conseguenze possibili di questi due scenari vi sono un attaccamento insicuro (o disorganizzato, nei casi in cui il caregiver è francamente abusante o maltrattante), un aumento nei livelli di ansia e problemi legati all’umore: tutto questo può avere un impatto duraturo nella vita del bambino e contribuire a un ciclo di disregolazione emotiva che rischia di persistere nelle generazioni successive (van der Kolk, 2014).

Inoltre, la trasmissione del trauma può coinvolgere anche meccanismi epigenetici, in cui eventi stressanti e traumatici precoci possono influenzare l’espressione genetica e lo sviluppo di sistemi di risposta allo stress (Yehuda et al., 2016). Alcuni studi (Bierer & Yehuda, 2009; Meaney et al., 2010; Danese & McEwen, 2012; Turecki & Meaney, 2016; Yehuda et al., 2016; Kuhlman et al., 2017) suggeriscono che i cambiamenti nell’espressione genica possono aumentare la vulnerabilità delle generazioni future a disturbi psicologici, complicando ulteriormente il processo di guarigione. Questa via biologica di trasmissione del trauma rimarca ulteriormente l’importanza di affrontare quanto prima gli effetti del trauma, date le sue manifestazioni emotive e fisiologiche.

L’importanza del legame di attaccamento

La teoria dell’attaccamento, formulata da John Bowlby, fornisce una cornice teorica per la comprensione di come le relazioni precoci modellano lo sviluppo emotivo e psicologico. Secondo l’Autore (1988), i neonati sono biologicamente predisposti a formare un legame emotivo saldo con i loro caregiver: è importante precisare che spesso si fa riferimento al rapporto madre-bambino, ma il ruolo materno e del caregiver non è solo appannaggio del genitore biologico. L’attaccamento, soprattutto se sicuro, consente al bambino di sentirsi sufficientemente tranquillo di esplorare il mondo e sviluppare le proprie abilità sociali e cognitive, sapendo di poter ritornare a una fonte di conforto e sostegno emotivo quando ne sente la necessità.

La qualità del legame di attaccamento è influenzata dallo stato emotivo e psicologico del genitore, che può risentire enormemente di esperienze personali traumatiche. I genitori con un trauma irrisolto possono avere deficit nella regolazione emotiva, che incide sulla loro capacità di rispondere in modo “sufficientemente buono” ai bisogni del loro bambino. Ad esempio, una madre che soffre di depressione o ansia può essere meno emotivamente disponibile o responsiva al proprio neonato e non riuscire a soddisfarne i bisogni di accudimento. Nel tempo, questa mancanza di continuità nell’accudimento può tradursi in uno dei molteplici stili di attaccamento insicuro del proprio figlio. Tra questi vi sono l’attaccamento ansioso (caratterizzato dalla tendenza a restare eccessivamente aggrappati e dipendenti dal caregiver), evitante (connotato da distacco emotivo e la tendenza a “fare da soli”) e disorganizzato (che manifesta, anche in breve sequenza, comportamenti di attaccamento incoerenti spesso presenti in casi di abuso o neglect) (Main, Solomon, 1990).

L’impatto di pattern di attaccamento insicuro in infanzia sullo sviluppo emotivo e la regolazione emotiva può essere molto profondo e può incidere enormemente sulla capacità del bambino di stabilire relazioni durature nell’arco della propria vita. Già Bowlby (1988) aveva osservato che i bambini con attaccamento insicuro hanno maggiori probabilità di soffrire di disturbi d’ansia, disturbi depressivi e problemi comportamentali. Inoltre, potrebbero replicare i pattern di attaccamento insicuro anche nelle relazioni con i pari e questo può tradursi in difficoltà interpersonali che si trascinano anche nell’età adulta, perpetuando gli effetti indiretti del trauma.

Nel tempo, numerosi studi hanno evidenziato le conseguenze più severe legate a un attaccamento disorganizzato (Carlson, 1998; Green, Goldwyn, 2002; Hesse, Main, 2006; Borelli, West, Crowley, 2010; Fearon, Belsky, 2011; Zeanah, Gleason, 2015), quali ad esempio difficoltà a comprendere e regolare le proprie emozioni. Potrebbero manifestare comportamenti contradditori come cercare conforto e al contempo evitare o rifiutare il caregiver, che si è posto come fonte di protezione e di pericolo. Questa confusione può incidere notevolmente sulla capacità del bambino di regolare le proprie emozioni e interagire con le altre persone in modo sano.

Il ciclo dell’attaccamento disorganizzato

Una volta che i pattern di attaccamento disorganizzato si sono stabiliti in una generazione, questi possono essere perpetuati alla prole. La relazione caregiver-bambino ha un’influenza decisiva sullo sviluppo emotivo e psicologico: quando è compromessa, il bambino potrebbe avere difficoltà nella regolazione emotiva, nel funzionamento sociale e nello sviluppo cognitivo. Per i figli di genitori con traumi irrisolti, diventare genitori a propria volta può rappresentare un’esperienza trigger particolarmente gravosa se non hanno avuto la possibilità di guarire le ferite nell’attaccamento, con il rischio di perpetrare dinamiche simili a loro volta (D’Andrea et al., 2012).

Ad esempio, un genitore che ha subìto esperienze infantili di neglect o abuso può avere difficoltà a instaurare un legame di attaccamento sicuro con il proprio neonato. Potrebbe risultare emotivamente assente o non sintonizzato ed essere incostante nell’accudimento, comportamenti che trovano lo loro radici profonde nelle sue esperienze precoci di attaccamento. Non avendo potuto fare esperienza di un ambiente sicuro in cui imparare a conoscere, comprendere e regolare i propri stati emotivi senza farsene travolgere, come anche a leggere la mente dell’altro, difficilmente questo genitore riuscirà a farlo con il proprio figlio.  In mancanza di un sostegno emotivo o di una psicoterapia che consenta di elaborare e riparare le rotture dovute al trauma, questo genitore potrebbe inconsapevolmente perpetuare lo stesso clima emotivo sul proprio figlio, rinforzando il circolo dell’attaccamento insicuro.

Questa dinamica circolare è particolarmente pronunciata nel caso di un attaccamento disorganizzato: il bambino potrebbe, crescendo, sviluppare pattern di comportamento disadattivo dovuti alla mancanza di coerenza nel comportamento del caregiver. Nel corso dello sviluppo questi pattern tendono a persistere e incidono negativamente sulla formazione di relazioni interpersonali sane e la gestione delle emozioni con modalità socialmente adattive. Quando questi bambini diventano genitori a loro volta, le loro difficoltà emotive irrisolte possono tradursi in ulteriori comportamenti che rendono l’attaccamento disorganizzato o insicuro (Main, Solomon, 1990).

Regolazione emotiva e l’impatto del trauma

L’espressione “regolazione emotiva” si riferisce alla capacità di gestire e rispondere in maniera adattiva alle esperienze emotive ed è essenziale per lo sviluppo di strategie di coping e risposte efficaci alle circostanze di vita (Gross, John, 2003).

Le interazioni con il caregiver rappresentano i primi momenti essenziali in cui poter imparare a regolare le proprie emozioni: una mamma capace di sintonizzarsi sullo stato emotivo può rispecchiare al proprio bambino che cosa sta provando e intervenire quando si trova a sperimentare emozioni spiacevoli, calmandolo e rassicurandolo. Un papà emotivamente non disponibile o che esibisce reazioni estreme (ad esempio, si arrabbia o spaventa moltissimo, o ancora si allontana ritraendosi) non consente al proprio figlio di imparare a regolare adeguatamente le proprie emozioni. Un esempio lampante della mancata sintonizzazione della madre sulle risposte del bambino è il paradigma dello “Still Face Experiment”, condotto da Ed Tronik nel 1975. Nelle video registrazioni dell’esperimento è possibile cogliere come il bambino, dopo numerosi tentativi di “risvegliare” la propria madre e renderla nuovamente interattiva, mostra segnali di malessere sempre più intensi che lo portano a disregolarsi. Se una breve esposizione a una mamma non responsiva come quella dell’esperimento comporta una simile reazione, si può immaginare la portata delle conseguenze a una infanzia costellata dalla ripetuta esposizione a esperienze simili. 

I genitori che hanno avuto esperienze traumatiche spesso hanno grosse difficoltà a regolare le loro emozioni e possono vivere costantemente in allerta o ipervigili, irritabili oppure stati di intorpidimento emotivo, che possono interferire notevolmente con la loro capacità di cogliere i bisogni del bambino e rispondervi in modo adeguato. In alcuni casi prendersi cura del proprio figlio può risultare molto stressante e il genitore potrebbe sentirsi sopraffatto da richieste per cui sente di non avere le risorse adatte o sufficienti e privare il figlio del supporto emotivo di cui ha bisogno (van der Kolk, 2014). Circostanze simili non forniscono al bambino quegli strumenti necessari per gestire efficacemente lo stress o regolare gli stati emotivi.

Nel tempo, i bambini che non imparano a regolare le proprie emozioni possono diventare eccessivamente reattivi, ansiosi o aggressivi ed esibire fluttuazioni dell’umore e difficoltà nel controllo degli impulsi. Questi bambini hanno difficoltà a gestire stati emotivi che percepiscono come soverchianti senza il sostegno del caregiver e risultano maggiormente a rischio di sviluppare problemi di salute mentale tra cui disturbi d’ansia, depressione o disturbi del comportamento (Bowlby, 1988). Se queste difficoltà si trascinano e persistono nell’adolescenza e in età adulta possono tradursi in problemi nel creare e mantenere relazioni intime profonde e stabili come anche nel gestire adeguatamente lo stress e i cambiamenti nelle richieste che provengono dall’ambiente. La disregolazione emotiva appresa in infanzia diviene alquanto radicata e complica la possibilità di liberarsi dai pattern disadattivi di responsività emotiva.

Il ruolo della mentalizzazione nel trauma transgenerazionale

Per mentalizzazione si intende la capacità di comprendere e riflettere sugli stati mentali propri e altrui. Ciò include riconoscere le proprie emozioni e pensieri e altresì capire che le altre persone sono dotate di intenzioni, provano emozioni ed esistono come individui separati da noi. La mentalizzazione è uno dei pilastri della cognizione sociale e della regolazione emotiva e gioca un ruolo fondamentale nello sviluppo di empatia, capacità comunicative e intelligenza emotiva (Fonagy, Target, 2002).

Le capacità di mentalizzazione di un genitore che ha alle spalle una storia traumatica possono essere alquanto compromesse. Gli eventi traumatici possono comportare difficoltà nell’elaborazione delle emozioni, perciò il genitore potrebbe avere difficoltà a riconoscere e/o rispondere agli stati emotivi del proprio bambino. Ad esempio, una madre o un padre che ha subìto abusi infantili o ripetute esperienze di neglect che ha sviluppato deficit di comprensione delle proprie emozioni difficilmente avrà acquisito gli strumenti per poter cogliere e rispondere a quelle del proprio figlio. Questa mancata sintonizzazione può ostacolare la formazione di un attaccamento sicuro e delle capacità di autoregolazione nel bambino (Fonagy et al., 2002) che non riguarda solo le emozioni, ma anche la percezione di stati corporei quali fame, sete, sonno, dolore fisico. In casi estremi, poi, il trauma può portare alla dissociazione, dove il genitore risulta emotivamente disconnesso dalle proprie emozioni e dai bisogni del bambino. 

Un altro modo in cui ripetute esperienze traumatiche possono incidere sulla capacità di mentalizzazione riguarda il livello di allarme e ipervigilanza che una persona può sperimentare. Il reiterarsi di esperienze traumatiche tende ad aumentare il livello di attivazione cronica del sistema nervoso centrale e periferico e questo può tradursi in una maggiore suscettibilità e reattività agli stimoli. Ne deriva che una persona cronicamente più attivata può risultare più ipervigile, cauta e guardinga nell’approcciarsi alle situazioni e potrebbe interpretare le intenzioni altrui come maligne o lesive nei suoi confronti, verosimilmente sulla base delle esperienze pregresse. Questo potrebbe renderla più vulnerabile a dare interpretazioni parziali o errate delle intenzioni delle altre persone, un “eccesso” di mentalizzazione che comporta un certo grado di distorsione del pensiero.

Il risultato è che i figli di genitori con deficit di mentalizzazione possono avere a loro volta difficoltà a sviluppare le abilità di mentalizzazione. Ad esempio, potrebbero sentirsi in balìa dei propri stati emotivi senza sapere come regolarli in modo funzionale: gli agiti autolesivi, come anche l’uso di alcol e/o sostanze o condotte alimentari restrittive o disregolate talvolta costituiscono l’unica “soluzione” che è stato possibile trovare per regolare i propri stati emotivi. La sfera delle relazioni risente ampiamente dei deficit di mentalizzazione, che incidono negativamente sulla comprensione delle emozioni e intenzioni proprie come anche sulla possibilità di instaurare e coltivare rapporti intimi e duraturi nonché di interagire con le altre persone (Bateman, Fonagy, 2004).

Rompere il circolo del trauma transgenerazionale

Per spezzare il ciclo della trasmissione transgenerazionale del trauma è necessario innanzitutto prendere in considerazione i fattori individuali e sistemici che lo perpetuano. Un approccio informato sul trauma (trauma-informed care) è essenziale per le persone che hanno alle spalle una storia traumatica. Una psicoterapia attenta a prendere in considerazione gli effetti che i vissuti traumatici possono avere sul piano corporeo, emotivo, relazionale e comportamentale può rivelarsi un’esperienza correttiva in cui è possibile imparare a regolare e gestire le proprie emozioni con modalità più funzionali.

Un intervento precoce sui genitori che hanno avuto esperienze traumatiche è essenziale. In tal senso, programmi focalizzati sullo sviluppo e il consolidamento di capacità di regolazione emotiva e sull’attaccamento possono aiutare a spezzare il ciclo del trauma transgenerazionale. Anche la promozione delle capacità genitoriali è altrettanto importante e possono aiutare entrambi i genitori a creare un ambiente emotivo sufficientemente stabile e sicuro per lo sviluppo del bambino (Schore, 2001). Infine, un intervento più ampio riguarda anche la comunità in cui gli individui crescono e vivono, che può avere un ruolo rilevante nello spezzare la trasmissione transgenerazionale del trauma. Una società che investe sul sostegno emotivo e sulle competenze genitoriali può aiutare le famiglie nel processo di guarigione, promuovendo la resilienza e portando all’attenzione pubblica i fattori di rischio e mantenimento che contribuiscono al perpetrarsi delle conseguenze del trauma (van der Kolk, 2014).

Conclusioni

La trasmissione transgenerazionale del trauma è un argomento complesso e pervasivo che incide notevolmente sul legame di attaccamento caregiver-bambino, sulla regolazione emotiva e la mentalizzazione. Le conseguenze di traumi non risolti possono generare e alimentare cicli di disregolazione emotiva, insicurezze nell’attaccamento e difficoltà relazionali che si trasmettono da una generazione alla successiva. Tuttavia un intervento precoce e una psicoterapia informata sul trauma, unite al sostegno della comunità, rendono possibile spezzare il ciclo di questa forma di trasmissione e promuovere il processo di guarigione. Focalizzandosi sulle cause profonde del trauma e favorendo relazioni più sane di attaccamento, regolazione emotiva e mentalizzazione, le generazioni future potranno proteggersi dagli effetti duraturi del trauma transgenerazionale.


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