Professor Giovanni Carlo Zapparoli


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09/13/2024

Giancarlo Zapparoli e la scienza dell’arte

Maria Bologna

Giancarlo Zapparoli pubblica Vie di accesso al delirio e suoi meccanismi di destrutturazione sulla Rivista di Psicoanalisi nel 1967, rielaborazione di una conferenza tenuta l’anno precedente all’Istituto Milanese di Psicoanalisi. Queste riflessioni confluiranno in un capitolo del volume La psicoanalisi del delirio (Bompiani, 1967).

Il professore ha al tempo 43 anni, è responsabile del Laboratorio di Psicologia dell’Ospedale psichiatrico “Paolo Pini” di Milano. Ai pazienti schizofrenici ha sempre dedicato il suo ascolto attento e riflessivo e l’analisi della loro esperienza lo ha guidato nella solida costruzione della teorizzazione clinica della psicopatologia grave. Il virtuoso circuito euristico che va dal dato clinico alla rigorosa verifica ed elaborazione teorica, passando attraverso una straordinaria capacità di intuizione, è già una delle caratteristiche strutturali del suo pensiero; mentre l’aderenza intermittente alla teoria a favore dell’ascolto del paziente lo è della sua pratica clinica. Questo articolo porta in sé, in nuce, tutta l’evoluzione successiva, che condurrà allo sviluppo del modello della integrazione funzionale.

In Vie di accesso al delirio riprende e discute la teoria di Nacht e Racamier (Rev. Franc. de Psychan., XII, 4-5, 1958), confrontandola con quella di Macalpine ed Hunter sul caso Schreber (The Psychoan. Quarterly, XXII, 1953) ed interrogandosi sui meccanismi alla base delle formazioni deliranti in chiave di specificità psicodinamica. Egli ne condivide alcuni presupposti: il delirio costituisce la soluzione più o meno stabile di un conflitto psichico, esiste dunque una continuità tra i meccanismi psichici propri di nevrosi e psicosi; il soggetto si trova a desiderare ed avere paura e il delirio gli fornisce i mezzi per soddisfare il desiderio evitando la paura. Dunque va concepito come manifestazione sia della paura che della difesa contro la paura. Assumendo uno sguardo da fenomenologo, ricerca la specificità delle matrici e degli stati primigeni del delirio, caratterizzati dal totale sconvolgimento della presenza nel mondo, dalla profonda alterazione dello spazio e del tempo vissuto e -dal punto di vista psicoanalitico- dal massimo disinvestimento libidico, che riguarda non solo l’oggetto ma anche le rappresentazioni psichiche.

In questo sconvolgimento assoluto vanno trovate le condizioni economiche basali dell’angoscia psicotica, che raggiunge il grado più elevato e disintegrante del terrore. In un simile stato di destrutturazione della coscienza si annullano i confini tra Sé e non Sé, tra immaginario e reale. Ne deriva l’incapacità a superare lo stadio preoggettuale, insieme ad una insufficiente strutturazione della personalità.

Riprendendo l’affermazione di Nacht e Racamier “… All’origine attuale dei deliri esiste un incontro tra eventi obiettivi (reali) e orientamenti conflittuali del malato. Una esatta ‘risonanza’ si stabilisce tra conflitti interni e fatti esterni”, egli sottolinea nella genesi dell’attività delirante il giusto valore della realtà, che entra non solo nella composizione del delirio ma anche nella sua creazione.

Esiste dunque una legge che diviene regola: ricercare nei deliri la realtà che il delirio traveste. Essa assume valore in quanto cade in modo preciso nel cono della paura proiettata dal conflitto, che il paziente vive nel momento stesso in cui la realtà si produce. All’entrata, come all’uscita dal delirio, la realtà esterna conferma i fantasmi inconsci del soggetto producendo una vera “collusione”  con la realtà interna inconscia e fantasmatica. E’ un assedio su due fronti: quello reale esterno e quello del mondo fantasmatico inconscio. Il paziente non può appoggiarsi sull’uno per difendersi dall’altro, perché entrano in risonanza, può solo adottare la via del delirio, che è quella dell’esorcismo.

In ogni esperienza cataclismatica si ritrova la fondamentale sequenza conflitto-paura-delirio; là dove c’è la paura compare il delirio e al contrario quando il delirio scompare l’angoscia tende a ricomparire. Il delirio è dunque determinato dall’angoscia psicotica, a sua volta alimentata dalla massa fluttuante di impulsi disinvestiti e defusi. In questa prospettiva, i sintomi psicotici sono prodotti sia dall’angoscia che dalla difesa contro l’angoscia. Ma il paziente continuerà sempre a tentare di reinvestire gli impulsi defusi. Potrà orientarli su di sé: è questa la posizione narcisistica, in cui egli diviene il creatore onnipotente di mondi in una atmosfera magica e megalomanica, capace di esprimere tutto l’irresistibile potere di creazione che caratterizza il delirio fino all’estasi, al suicidio o al ripiegamento ipocondriaco. Posizione intollerabile questa, che lo riorienta nuovamente verso il mondo costringendolo a reincontrare il delirio. In un mondo narcisistico compiuto in sé non può, per definizione, esistere il delirio. L’intermediario tra investimento oggettuale impossibile e ripiegamento narcisistico insostenibile è la relazione delirante.

Fin qui l’adesione critica alle riflessioni degli Autori, non senza sottolinearne alcune distanze, come quando, ad esempio, nel solco analitico più ortodosso il Professore non trascura il ruolo del transfert legato alle ripetizioni del passato nel presente piuttosto che, come sottinteso da Nacht e Racamier, quello delle caratteristiche dell’analista in chiave di esperienza emotivo correttiva. E non tace neanche del controcanto di Macalpine ed Hunter, che attribuiscono al delirio la specificità della irruzione di fantasie inconsce non alterata dal compromesso della rimozione, che rende gli schizofrenici capaci di comunicare direttamente le loro esperienze mediante aspetti della realtà interiore solitamente inaccessibili o deformati dal sistema difensivo.

Il suo interesse si appunta allora su un aspetto trascurato dagli altri Autori: se esistono vie d’accesso al delirio, devono esistere anche vie d’uscita. Qui l’analisi psicopatologica si salda irrevocabilmente ai processi di guarigione dal delirio ed alle vicissitudini, a volte anche drammatiche, della relazione terapeutica.

Una modalità è rappresentata dal delirio di protezione, legato al processo transferale di investimento libidico sul terapeuta, che porta il paziente a viverlo come protettore; mentre va modificandosi la rigidità del contenuto delirante persecutorio: “La strutturazione del delirio di protezione esprime, in molti casi, proprio una necessità di controllo dell’oggetto, che si realizza in modo indiretto, in quanto avviene attraverso la proiezione, ed in modo da realizzare il controllo reciproco del protettore che controlla il persecutore e del persecutore che controlla il protettore”.

L’altra modalità riguarda la trasformazione in persecutore del terapeuta, che può essere collegata a diversi meccanismi tra cui lo sviluppo di una reazione terapeutica negativa. Questa analisi, che è innanzitutto clinica, spinge il Professore ai confini della tecnica analitica classica e ad esplorare la frontiera del trattamento psicoanalitico delle psicosi schizofreniche, ribadendo l’imperativo etico di comprendere innanzitutto perché i fenomeni clinici accadano, quali siano i significati e la matrice antropologica.

Lo schizofrenico elabora quindi meccanismi di difesa nei confronti del terapeuta sostenuti da due posizioni fondamentali, che lo caratterizzano in rapporto alle sue stesse produzioni patologiche: la richiesta di “essere svegliato dal delirio” oppure di “mantenere il diritto a delirare”. Emergono così aspetti specifici, che caratterizzano la relazione terapeutica con il paziente psicotico riguardanti i meccanismi di difesa e le resistenze. La morfologia della struttura delirante può oscillare in questa fase tra tentativi di differenziazione e dedifferenziazione, nella direzione di riacquistare il mondo perduto degli oggetti o di operare un ulteriore massiccio disinvestimento. Il compito del terapeuta è cogliere questa duplice possibilità e sostenere la doppia funzione di colui che guarisce e rende folle, che perseguita e protegge: “… Di fronte al paziente che delira, il terapeuta si trova a dover scegliere di essere il rappresentante del principio di realtà oppure del principio del piacere, senza che il paziente fornisca elementi sufficienti”.