Il passaggio evolutivo da donna senza figli a madre è cruciale: comporta un cambiamento non solo fisico e ormonale (in particolare di estrogeno e progesterone), ma anche psicologico e cerebrale; si tratta di modificare l’immagine di sé, spesso in un’età non più così giovane, acquisire nuove competenze, confrontarsi con limiti, emozioni intense, paure e incertezze che non si sapeva nemmeno di avere.
Questo è anche determinato da modificazioni nel cervello, ormai riconosciute da studi scientifici, che ci dicono che le aree cerebrali deputate al riconoscimento delle intenzioni degli altri, come la corteccia frontale, quella temporale e la linea mediana, subiscono variazioni importanti.
Qualcosa di simile avviene in adolescenza, motivo per cui la gravidanza viene considerata come una seconda fase di maturazione del cervello, necessaria a rendere le donne rispondenti al fabbisogno dei propri bambini (Hoekzema et al., 2017). Lo stesso non avviene nel cervello dei neo papà, motivo per cui si può escludere un’origine di tale cambiamento legato all’assunzione di un nuovo ruolo sociale, quello genitoriale, ma le risposte piuttosto vanno cercate piuttosto nella biologia.
Tali cambiamenti hanno un impatto grandissimo nell’immagine che la donna ha di sé: tutto ciò che conosceva di se stessa, le proprie reazioni, i propri interessi, le relazioni con gli altri, il proprio mondo emotivo, la relazione col partner e con la famiglia, il modo di prendersi cura di sé, è completamente stravolto da una quotidianità tutta improntata sull’altro (il neonato) e da un cervello che non risponde più nella stessa maniera in cui rispondeva prima; tutto diventa meno prevedibile e tutto è da improvvisare, anche in base alle esigenze mutevoli del bimbo.
Questo può creare un grande stato di incertezza e fragilità nella donna, che cerca di ritrovare un equilibrio e una stabilità nella propria vita.
Il rientro al lavoro spesso può rappresentare una iniziale risposta a tale fragilità, perché comporta un riappropriarsi di qualcosa di conosciuto, in cui magari ci si sente brave e capaci, che rappresenta per eccellenza “il prima” della maternità.
Chiaramente però comporta tante domande e perplessità della madre rispetto a quando sia adeguato separarsi dal proprio figlio, a quali soluzioni adottare (nonni, nido o babysitter?), a che tipo di madre si pensa di essere se si “lascia” il proprio bambino per tornare al lavoro.
Una volta però individuata una soluzione che risponda ai bisogni della propria famiglia, che difficoltà si incontrano nel momento del rientro al lavoro?
Intanto, non tutte le madri riescono a rientrare: vuoi per problemi economici (non a tutte conviene tornare a lavorare part time, ad esempio, se poi devono sostenere i costi del nido o di una baby sitter), vuoi perché sono state lasciate a casa dal datore di lavoro (nel 2020 a fronte di 42.000 licenziamenti, il 77% era rappresentato da neo mamme).
Se invece la situazione è migliore, e quindi c’è la possibilità (che per inciso dovrebbe essere un diritto) di rientrare al lavoro, spesso ci si trova di fronte ad una child penalty, ovvero quel fenomeno per cui è più difficile fare carriera o avere uno stipendio equo, se si è madri. In Italia, l’11,1% delle donne dichiara di aver rinunciato al lavoro dopo aver avuto un figlio, per dedicarsi alla prole contro il 3,7% della media europea (Bubba, 2023).
E se si è libere professioniste? La situazione non è molto differente.
Spesso si è chiamate a sacrificarsi di fronte a malattie dei figli “perché tu non devi chiedere permessi al lavoro” (certo, ma se non lavoro non guadagno, mentre il congedo parentale è retribuito).
Spesso ci si fa carico di visite, attività extra dei bambini, incontri con amichetti, perché si è più flessibili negli orari.
Ma è davvero possibile e sostenibile che si facciano i salti mortali anche in questo caso per incastrare tutto? Cura del bambino e lavoro, in modo da non rinunciare a nulla? Si possono davvero svolgere due lavori a tempo pieno? Quello di mamma e quello di professionista? Senza qualche forma di sostegno da parte dello stato, che ci occupi di creare il famoso “villaggio” intorno alla madre (che sia però accessibile economicamente), se la madre non ha una famiglia su cui poter contare?
La risposta amara è no: non è sostenibile; forse temporaneamente si, ma a discapito del proprio riposo, del proprio benessere come donna, come madre, come compagna e del proprio equilibrio psicologico. Dei propri bisogni fondamentali.
Comporta troppa fatica mentale, troppe cose da tenere a mente, troppe cose da fare, troppi compiti importanti, come crescere un essere umano, da dover onorare.
Purtroppo una risposta univoca che risolva il problema non c’è. Ciascuna di noi è chiamata a rispondere alle esigenze del proprio bambino, del proprio nucleo famigliare ma soprattutto, e vorrei che fosse un punto di attenzione fondamentale, SOPRATTUTTO, ai propri bisogni: al bisogno di dormire, per prevenire squilibri fisiologici che comportano irritabilità, nervosismo e reattività, al bisogno di poter dedicare del tempo a se stessa, senza il senso di colpa di essere una cattiva madre (perché ciò influisce positivamente sull’umore e sulla disponibilità verso il proprio figlio e il partner), al bisogno di sentire ancora continuità con il “prima”, anche se ora è tutto diverso.
Tutto più bello, tutto più pieno, tutto più denso.
Bibliografia
· Bubba F, “preparati a spingere” – Rizzoli Editore, 2023
· Elseline Hoekzema, Erika Barba-Müller, Cristina Pozzobon, Marisol Picado, Florencio Lucco, David García-García, Juan Carlos Soliva, Adolf Tobeña, Manuel Desco, Eveline A Crone, Agustín Ballesteros, Susanna Carmona & Oscar Vilarroya - Nature Neuroscience volume 20, pages 287–296 (2017)